L'impresa familiare non รจ compatibile con la disciplina societaria - Cass. sez. Lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552
Cass. sez. Lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUIGI MACIOCE - Presidente
Dott. ENRICA D'ANTONIO Consigliere
Dott. DANIELA BLASUTTO - Consigliere
Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI - Rel. Consigliere
Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 18122-2009 proposto da:
TIZIA;
- ricorrente –
contro
CAIO;
- controricorrente –
avverso la sentenza n. 896/2008 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 17/07/2008 R.G.N. 436/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/07/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MAURIZIO VELARDI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 17 luglio 2008, la Corte d'appello di Milano rigettava l'appello di TIZIA avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto le domande, nei confronti di CAIO e ALFA s.n.c. di Caio e Mevio, di accertamento della sussistenza di un'impresa familiare nella conduzione dell'esercizio commerciale oggetto dell’attività, dei conseguenti diritti alla percezione di utili ed incrementi non riscossi dal 27 maggio 1998 al 26 gennaio 2004, alla liquidazione della quota di spettanza e al risarcimento dei danni per l'allontanamento dall'impresa.
A motivo della decisione, la Corte territoriale ribadiva l'inconfigurabilità, per la natura residuale dell'istituto e la titolarità dell'esercizio da imprenditore societario, di un'impresa familiare nel regime di gestione dell'esercizio commerciale della s.n.c. suddetta, pure in assenza di rapporti di coniugio, né di parentela o di affinità di TIZIA con MEVIO altro socio della s.n.c. con il marito CAIO; neppure la medesima avendo svolto un lavoro domestico (piuttosto di cura e gestione in via esclusiva della casa, di istruzione e di educazione della figlia) qualificabile alla stregua di contributo quali-quantitativo all'accrescimento dell'impresa asseritamente familiare, anche in difetto di accordi di suddivisione dei compiti tra i coniugi in una tale prospettiva, essendo anzi la prestazione di TIZIA ascrivibile ai doveri, connessi al matrimonio con CAIO di collaborazione nell'interesse della famiglia e di contribuzione ai suoi bisogni, ai sensi dell'art. 143 c.c.
Con atto notificato il 16 luglio 2009 TIZIA ricorre per cassazione unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c., cui resiste CAIO con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 230-bis c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'erronea esclusione della configurabilità di un'impresa familiare nell'esercizio di un'attività in forma societaria e non soltanto individuale, per la residualità di previsione dell'art. 230-bis c.c. a tutela del lavoro prestato nella famiglia, ben potendo la diversa determinazione dei diritti patrimoniali dei soci e dei collaboratori familiari trovare giustificazione nel differente titolo di partecipazione all'attività (con richiamo anche di precedenti di legittimità favorevoli in presenza di una società di fatto). Premessa la necessità di formulazione del quesito per l'applicabilità al presente giudizio dell'art. 366-bis c.p.c. ratione temporis (abrogato per le controversie nelle quali il provvedimento impugnato con ricorso per cassazione sia stato pubblicato dopo il 4 luglio 2009), peraltro inidoneo per il suo tenore astratto e inconcludente ("Può ritenersi applicabile la disciplina di cui all'art. 230-bis c.c. nel caso di esercizio d'impresa nella forma delle società di persone?"), in violazione della prescrizione a pena di inammissibilità della norma citata, non assolvendo alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale, né essendo calato nella fattispecie concreta, così da mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura l'errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile (Cass. 7 marzo 2012, n. 3530; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463), il motivo è infondato.
Osserva questa Corte come, nell'evidente intendimento di rafforzare il vincolo familiare nello sviluppo dell'idea della famiglia come comunità e nell'apprestamento di una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di comune lavoro nell'ambito degli aggregati familiari (in passato ricondotti ad una causa affectionis vel benevolentiae, o ad un contratto innominato di lavoro gratuito: Cass. 9 giugno 1983, n. 3948), in una sorta di istituto intermedio tra il rapporto di lavoro subordinato e di società (senza tuttavia essere, in senso tecnico, né l'uno né l'altro) del tutto peculiare ed autonomo (Corte cost. 15 novembre 1993, n. 419), il legislatore abbia concepito l'impresa familiare (art. 230-bis c.c.) come quella in cui collaborino il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, per tali intesi i familiari che prestino la loro attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa appunto familiare (art. 230-bis, primo e terzo comma c.c.).
La partecipazione dei familiari all'impresa non trasforma però questa in una collettiva, conservando essa il carattere di impresa individuale, imputabile al solo imprenditore familiare e non anche ai suoi collaboratori (così solo il primo essendo individuato quale soggetto passivo dell’IRAP, siccome imposta relativa allo svolgimento di un'attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi; non anche i familiari collaboratori, cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall'impresa familiare, posto che tale imposta colpisce il valore della produzione netta dell'impresa e che la collaborazione dei partecipanti integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore, o valore aggiunto, rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare: Cass. 8 maggio 2013, n. 10777).
Ed infatti, l'impresa appartiene soltanto al suo titolare, essa creando tra i partecipanti un rapporto meramente interno, di natura obbligatoria, per la qualificazione dei loro diritti economici alla stregua di diritti di credito nei confronti del titolare medesimo: con la conseguenza che, in caso di sua morte, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 c.c., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone; ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius, potendo rispetto ad essi i partecipanti all'impresa familiare vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda (Cass. 15 aprile 2004, n. 7223).
In particolare, i collaboratori familiari concorrono con l'imprenditore alla ripartizione degli utili in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (con specifico riferimento ai criteri di determinazione, sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa: Cass. 8 marzo 2011, n. 5448; Cass. 8 aprile 2015, n. 7007), tenuto conto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l'impresa, pertanto da detrarre e restando a carico del partecipante che agisca per il conseguimento della propria quota l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l'ammontare degli utili da distribuire (Cass. 23 giugno 2008, n. 11057).
Ed è proprio la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa (e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione) ad essere stata individuata come elemento di irriducibilità dell'impresa familiare ad una qualsiasi tipologia societaria (nel senso dell'inapplicabilità della disciplina prevista dall'art. 230-bis c.c., con riferimento all'attività lavorativa svolta nell'impresa commerciale gestita da una società in nome collettivo di cui sia compartecipe il congiunto o l'affine del lavoratore: Cass. 6 agosto 2003, n. 11881; in senso contrario, in un'ipotesi di impresa esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi: Cass. 23 settembre 2004, n. 19116). Sicché, se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone, salvo il patto contrario (art. 2262 c.c.), mentre solo di una mera aspettativa gode il socio di società di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (artt. 2433 e 2479, secondo comma, n. 1 c.c.), nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate. Ed ancora più confliggente con le regole imperative del sistema societario è stato ritenuto il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio: tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario, integrato con la presenza dei familiari dei soci, nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell'impresa stessa. Tale disciplina si pone, infatti, in insanabile contrasto con le relative modalità di assunzione all'interno di una società, in cui sono riservate di volta in volta agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale (così: Cass. s.u. 6 novembre 2014, n. 23676, secondo cui l'esercizio dell'impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria non solo per l'assenza nell'art. 230-bis c.c. di ogni previsione in tal senso, ma soprattutto per le ragioni illustrate; e la soluzione è inoltre coerente con una interpretazione teleologica della norma, introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con l'art. 89 I. 19 maggio 1975, n. 151, norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali, che, come si evince dall'incipit dell'art. 230-bis c.c. "salvo sia configurabile un diverso rapporto", prefigura l'istituto dell'impresa familiare come autonomo, di carattere speciale, ma non eccezionale, e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile).
Così ribadita l'incompatibilità dell'impresa familiare con la disciplina societaria (e quand'anche ipotizzabile, difettando l'allegazione e la prova dei requisiti di prestazione dalla ricorrente di un lavoro casalingo idoneo alla partecipazione ad un'impresa familiare: Cass. 16 dicembre 2005, n. 27839), neppure può essere accolta la prospettazione di TIZIA (a parziale correzione, sulla puntuale contestazione di CAIO a pg. 13 del suo controricorso, della propria domanda di accertamento di un'impresa familiare tra la ricorrente, CAIO e ALFA s.n.c. di Caio e Mevio senza peraltro mantenimento del contraddittorio, già dal grado d'appello, con quest'ultima) di "sussistenza dell'impresa familiare fra la medesima ricorrente ed il proprio coniuge, sig. CAIO il quale era socio di una società in nome collettivo" (così a pg. 1 della memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.).
Appare fin troppo evidente come non il socio, ma la società personale sia il soggetto imprenditore (e così ancora ribadito da Cass. s.u. 6 novembre 2014, n. 23676, cit.), in quanto centro esponenziale di interessi collettivi (e quindi sovraindividuali) dotato di autonoma soggettività, pertanto soggetta allo statuto dell'imprenditore commerciale (artt. 2214 ss. c.c.) ed in particolare al fallimento: quello (cd. "in estensione", ai sensi dell'art. 147 I. fall.) del socio di società di persone giustificandosi (non già per la sua qualità di imprenditore commerciale: Cass. 2 aprile 2012, n. 5260; ma) soltanto per la natura personale e diretta della sua responsabilità illimitata, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale (Cass. s.u. 16 febbraio 2015, n. 3022, in specifico riferimento alla natura costitutiva di una garanzia per un'obbligazione non già altrui, ma propria dell'atto con cui il socio illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo rilasci una garanzia ipotecaria per un debito della società): a prescindere dall'accertamento della sua personale insolvenza, appunto in difetto della sua autonoma qualità imprenditoriale (Cass. 3 marzo 2006, n. 4705; Cass. 13 maggio 2011, n. 10652).
Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con l'affermazione del seguente principio di diritto, ai sensi dell'art. 384, primo comma c.p.c.: "L'esercizio dell'impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Neppure esso si può configurare tra due coniugi di cui uno eserciti un'attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, esclusivamente propria della società".
La regolazione delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, segue il regime di soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna CAIA alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 4,000,00 per compenso professionale, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 luglio 2015